La mia vita con l’Huntington. Una storia a più voci

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Dalla scoperta della diagnosi alle implicazioni psicologiche del fattore ereditario, un volume promosso da Huntington onlus ripercorre gli snodi cruciali di una patologia a dir poco spiazzante. Il risultato è un racconto corale composto dalle voci di pazienti, familiari e professionisti della cura.

ROMA – Comprendere i risvolti esistenziali, sociali e sanitari di una malattia non è mai semplice. A maggior ragione quando si tratta di un disturbo complesso come l’Huntington: una patologia rara, neurodegenerativa ed ereditaria, che determina alterazioni dei movimenti e del comportamento, oltre a un progressivo deterioramento cognitivo. A fare luce sull’esperienza di tanti malati, familiari e professionisti della cura, che hanno quotidianamente a che fare con questa condizione, arriva ora un volume promosso da “Huntington Onlus” e pubblicato da Franco Angeli: “I racconti dell’Huntington. Voci per non perdersi nel bosco”. Lo ha letto e ne parla Antonella Patete, sulle pagine di SuperAbile Inail.

“È sempre complicato restituire l’immagine di una malattia difficile e drammatica come questa – le spiega Claudio Mustacchi, past president dell’associazione e curatore del libro insieme alla sociologa e assistente sociale Maria Luppi e allo psicologo Gianni Del Rio – Il nostro intento era quello di rappresentare le vite e la forza di tutte le persone che si confrontano con questa malattia, uscendo dalla logica puramente medica, che è sì importante, ma rischia di ridurre tutto a una dimensione privata. L’Huntington costituisce, invece, una condizione esistenziale, che spinge le persone a mettersi insieme o, in altri casi, a isolarsi”.

Attraverso il racconto corale delle 25 persone intervistate, il volume ripercorre gli snodi cruciali di questa patologia di cui solo negli ultimi anni si comincia a parlare. Dalla scoperta di essere malati alle implicazioni psicologiche della dimensione di ereditarietà, dalla scelta di non rivelare la presenza dell’Huntington in famiglia fino al rapporto con i circuiti della cura e dell’assistenza, le tante testimonianze raccolte all’interno del testo illuminano aspetti decisamente poco scontati.

“La mia conoscenza della malattia di Huntington risale a quando ho avuto la comunicazione della diagnosi di mia sorella”, racconta una donna. “Lei lavorava in ospedale e una sua collega psichiatra suggeriva che fosse qualcosa di psichiatrico. Io le ho detto che a mio parere era altro, perché ci siamo accorti di problemi di sbandamento nel camminare; quindi poteva essere un problema neurologico. Così ha fatto tutti gli accertamenti e per scrupolo anche la ricerca dell’huntingtina. Ero andata ad accompagnarla e avevo lasciato anche il mio telefono, così il medico ha telefonato a me. Questo mi dice: “Guardi, devo darle una brutta notizia, sua sorella ha l’Huntington. A me è caduto il mondo. Perché poi uno legge subito, va a consultare anche tutta quella partita della genetica… Quindi non solo lei… Tutti”.

Insomma, la diagnosi è spiazzante non solo per l’asprezza dei sintomi, ma anche per le conseguenze psicologiche del fattore ereditario. “È stata a lungo una patologia nascosta”, commenta Luppi. “Talvolta alcuni sintomi possono essere fraintesi, per esempio, il movimento coreico può far pensare alle movenze di un ubriaco. Oppure sintomi cognitivi o comportamentali possono non essere subito ricollegati alla malattia neurologica e interpretati come facenti parte di un quadro psichiatrico. E poi c’è la questione dei segreti in famiglia: ci sono persone che si sono sposate senza conoscere la presenza della malattia tra i parenti dei propri consorti, quando invece in famiglia si sapeva”.

Trattandosi, infatti, di una patologia che si manifesta in età adulta ed avendo ogni figlio il 50% delle possibilità di ereditare la malattia, soprattutto in passato, capitava spesso che potesse cogliere le persone di sorpresa. Ma a volte, chi sapeva, taceva per paura dello stigma. E anche per proteggere i propri figli, cercando di garantire loro una vita, almeno, all’apparenza, normale.

In un’altra testimonianza una donna racconta: “E io ho cominciato ad avere grossi dubbi e ho cominciato a indagare, purtroppo con ostruzionismo da parte di mia suocera che non voleva che io indagassi su cosa fosse questa malattia. Purtroppo questa è la realtà. Quando chiedevo se mio marito avesse qualcosa, lei diceva di non andare a cercare cose che non ci sono”. Ma lo shock più grande questa donna lo ha quando scopre che il loro stesso figlio è a rischio e, nei fatti, anche lui si ammalerà, esattamente come il padre e il nonno. “Quindi il mio primo sentimento era di odiarlo, di odiarlo a morte…”, precisa, con riferimento al marito. “Poi piano piano negli anni mi sono fatta una ragione”.

La possibilità di ammalarsi pende, dunque, come una spada di Damocle su figli e genitori, preoccupati per la propria prole. E la possibilità di eseguire il test predittivo, disponibile dal 1994, rende più drammatica la scelta. Il volume presenta le posizioni di chi ha scelto di farlo, anche per poter pianificare più serenamente una famiglia e di chi, al contrario, ha deciso di restare nell’incertezza. “Io ai tempi, quando sapevo il fattore malattia, che era stata diagnosticata a mio zio, nonno e anche a mia madre, e avevo pure i miei figli, ero indecisa: lo faccio, no non lo faccio, lo faccio, no non lo faccio. […] Più tardi ho deciso di farlo, l’ho fatto a 33 anni, quasi cinque anni fa”.

“Le storie raccolte non riguardano però solo i malati e i loro familiari”, conclude Luppi. “Temi come la malattia, la morte, la scelta di mettere al mondo dei figli rappresentano questioni universali, che riguardano tutti noi”.

Tratto da: https://www.superabile.it/cs/superabile/salute-e-ricerca/20191117-mia-vita-con-huntington.html