Media e disabilità, Figlia: caso eccezionale che crea supereroi

 

oooooDossier “Niente stereotipi, per favore”/3. Dieci puntate, dieci professionisti della comunicazione che raccontano come giornali e tv rappresentano le persone disabili. Manuela Figlia, protagonista del docu-reality “Ho sposato un gigante” (La5): così passa il messaggio che “uno su mille ce la fa”


ROMA – “Oggi la disabilità viene ancora trattata come un caso eccezionale da parte dei media; invece, come la malattia, è una realtà con cui ciascuno di noi potrebbe in qualsiasi momento della vita doversi confrontare. Questo approccio da parte dei media porta alla conseguenza di dipingere questi individui come supereroi che, con la loro sola forza, sono riusciti a superare traumi insormontabili. In realtà si tratta semplicemente di persone che hanno avuto l’opportunità, o il dovere in un certo senso, di sviluppare fin dalla nascita strategie atte a garantirsi una vita migliore rispetto alla propria condizione di partenza. Si chiama resilienza”.. Ne è convinta Manuela Figlia, protagonista nel 2015-2016 del docu-reality Ho sposato un gigante trasmesso su La5. Nata a Napoli, Figlia vive a Milano con il marito e i suoi due bambini. Dopo gli studi in Legge e varie esperienze in azienda, lascia il lavoro a tempo indeterminato per studiare fotografia, specializzandosi nell’ambito della moda e della pubblicità per il settore bimbo. canale digitale Mediaset. A partire dal 2014 è anche life coach e attualmente si sta formando come counselor olistico. Ha una displasia scheletrica che comporta bassa statura. La sua è una delle voci raccolte nel dossier “Niente stereotipi, per favore”, a il numero di dicembre del magazine SuperAbile Inail, in cui dieci giornalisti, comunicatori e blogger che vivono la disabilità sulla propria pelle ( anche se non sempre se ne occupano anche a livello professionale) raccontano come i media raccontano la vita e rappresentano le persone disablii.

“Sicuramente l’ambiente e le caratteristiche individuali possono fare la differenza, – sottolinea – ma la disabilità rimane un dato di fatto come un altro, un’informazione aggiuntiva del patrimonio di vita di una persona. Io, per esempio, ho una displasia scheletrica che comporta bassa statura, ma avrei anche potuto essere vittima di altri accadimenti definiti comunemente limitanti: insomma, è difficile che nell’arco della propria esistenza non si debba fare i conti con qualche problema più o meno grande”.
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“Ho scelto di espormi pubblicamente nel docu-reality Ho sposato un gigante – spiega – per dare voce a quelle coppie che non hanno il coraggio di viversi pienamente e per smorzare la curiosità di chi fatica a immaginare una normale quotidianità per una famiglia ‘non convenzionale’ come la nostra. Resta un dato di fatto, però: a differenza di altri Paesi come gli Stati Uniti in cui anche una persona disabile può arrivare a ricoprire determinati ruoli professionali per i suoi meriti indipendentemente dalle sue caratteristiche fisiche, in Italia l’unica via per emergere da questo stato sembra essere limitata esclusivamente al racconto della disabilità come caso isolato e straordinario, seguendo un po’ la moda o il trend del momento che il mondo dei media dall’estero ci suggerisce. Passa così il messaggio finale che “uno su mille ce la fa” perché “poverino”, nonostante la sua sfortuna, è riuscito ad arrivare a un grande risultato, nel lavoro, nello sport o nella vita. Invece il vero messaggio che dovrebbe passare è che tutti potrebbero farcela, rimboccandosi le maniche, se avessero intorno una società che incoraggia e sostiene davvero chi si dà da fare nonostante la sua condizione”.
“Quanto all’informazione specializzata sul tema della disabilità, – conclude – può essere utile soprattutto per le famiglie che hanno bisogno di comunicare con qualcuno che le comprenda e di essere informate e rassicurate. Credo che i giornalisti disabili possano essere sicuramente più sensibili ed empatici nel trattare alcuni temi, ma sono anche convinta che debbano occuparsi anche di altri argomenti: ognuno dovrebbe sentirsi libero di affrontare ciò per cui si sente maggiormente trasportato, indipendentemente da quale sia il suo punto di partenza. Infine, riconosco l’utilità pratica del mondo associativo per quanto riguarda l’informazione e l’accoglienza, anche se personalmente non ho mai sentito l’esigenza di frequentare o legarmi in modo esclusivo a una comunità specifica, né nella vita reale né in quella virtuale”.

TRATTO DA: http://www.redattoresociale.it/Notiziario/Articolo/523830/Media-e-disabilita-Figlia-caso-eccezionale-che-crea-supereroi