Quando è legittimo il licenziamento di un lavoratore disabile per inidoneità alla mansione? La Corte di Cassazione torna sull’argomento affermando l’applicabilità, nel caso oggetto di giudizio, della regola speciale che prevede la visita sanitaria di competenza esclusiva della commissione ex lege n. 104/1992, regola finalizzata a valorizzare le capacità professionali del portatore di handicap in considerazione della funzionalità economica dell’impresa. La sentenza in esame offre un interessante spunto di riflessione sul tema dell’aggravamento delle condizioni di salute del disabile e della sua sopravvenuta inidoneità alla mansione. Come deve operare il datore di lavoro?
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Disabili e aggravamento delle condizioni di salute: limiti al recesso datoriale
Posted by Ileana Argentin at 3:25 PM. Placed in Rassegna stampa category
Una recentissima sentenza della Corte di Cassazione, la n. 10576 del 28 aprile 2017, offre l’occasione per una riflessione relativa alle modalità di risoluzione del rapporto di lavoro con un dipendente disabile a seguito dell’aggravamento delle proprie condizioni di salute.
La questione nasce dal fatto che il datore di lavoro, a seguito dell’inidoneitàalla mansionespecifica constatata dal medico competente accertata a seguito di visita avvenuta ex art. 41 del D.L.vo n. 81/2008, aveva proceduto alla risoluzione del rapporto avvalendosi delle prerogative stabilite dal successivo art. 42, non ravvisando la possibilità di adibire l’interessato a mansioni equivalenti od inferiori con la garanzia del trattamento economico corrispondente alle mansioni di provenienza.
Il motivo del contendere che, poi, ha portato alla decisione della Suprema Corte, ha riguardato la violazione dell’art. 10, comma 3, della legge n. 68/1999 secondo il quale gli accertamenti sanitari debbono essere effettuati dalla commissione prevista dall’art. 4 della legge n. 104/1992, integrata: la valutazione sullo “status” avviene al termine di un iter procedimentale che prevede il coinvolgimento del comitato tecnico previsto dall’art. 6.
Secondo la Cassazione, pur nella piena validità delle disposizioni che concernono l’idoneità alle specifiche mansioni per tutti i dipendenti, non può non rilevarsi come, nel caso di specie, prevalga la regola speciale che prevede la visita sanitaria di competenza esclusiva della commissione ex lege n. 104/1992, in quanto tutta la disposizione appare finalizzata a valorizzare le capacità professionali del portatore di handicap, con la funzionalità economica dell’impresa: da ciò si è tratta la conclusione della illegittimità del licenziamento adottato senza il rispetto della procedura ex art. 10 della legge n. 68/1999. Il ragionamento seguito dai giudici di Piazza Cavour ha un proprio fondamento logico, in quanto non vogliono interpretare, come un vuoto principio, i presupposti della norma speciale, che tendono ad agevolare nelle realtà aziendali, l’effettivo inserimento dei soggetti svantaggiati.
La sentenza appena citata della Cassazione è, anche, l’occasione per un esame di tutta la normativa inserita nell’art. 10 che disciplina la costituzione del rapporto, alcuni aspetti della gestione, la risoluzione e le tutele in caso di licenziamento.
Il comma 1 ricorda la obbligatorietà del trattamento economico e normativo che deve essere uguale a quello in essere per gli altri lavoratori. Ma, con quale tipologia contrattuale possono essere assunti i disabili?
L’assunzione può avvenire a tempo indeterminato, anche parziale, come stabilito dalla Cassazione con la sentenza 22 novembre 2001, n. 14823 e dal DPR n. 333/2000 (art. 3, comma 5 in alcune ipotesi), con contratto di apprendistato (art. 11, comma 6), ma anche a termine (Cass., 26 ottobre 1991, n. 11440, interpello Ministero del Lavoro n. 66/2009) per lo svolgimento di mansioni compatibili con l’handicap. Sono, senz’altro, da escludere forme come il lavoro intermittente che ha natura prettamente saltuaria e nel quale l’espletamento dell’attività dipende, unicamente, dalla “chiamata” del datore.
E’ ammissibile il patto di prova secondo la durata prevista dal contratto collettivo? La risposta è positiva (Corte Costituzionale, 18 maggio 1989, n. 255; Cass., 16 agosto 2004, n. 15942) ma il contenuto deve essere rapportato all’handicap del quale soffre il soggetto interessato, cosa che comporta la nullità del recesso nel caso in cui lo stesso non sia motivato dalla incapacità del disabile allo svolgimento di mansioni compatibili con il grado di disabilità (Cass. S.U., 1 marzo 1989, n. 1104).
Quanto appena detto merita due considerazioni.
La prima riguarda la valutazione del periodo di prova: essa resta nella sfera dell’imprenditore e su tale apprezzamento nulla può dire il giudice il quale, peraltro, può giungere all’annullamento del recesso se questo risulti viziato da comportamenti ambigui o capziosi tali da invalidare la natura del patto di prova.
La seconda riguarda la motivazione: il datore di lavoro non è tenuto a motivare il recesso avvenuto durante o al termine del periodo di prova ma il lavoratore può dimostrare in giudizio la illiceità del comportamento.
Ma cosa succede in caso di aggravamento delle condizioni di salute? Qui entriamo nel merito della decisione della Corte di Cassazione dalla quale è partita questa riflessione.
In caso di aggravamento delle condizioni di salute o di significative variazioni nella organizzazione del lavoro, sia il disabile che il datore di lavoro possono chiedere che venga accertata dalla commissione medica ex lege n. 104/1992 la compatibilità delle mansioni affidate con lo “status” invalidante. La richiesta del datore può anche essere finalizzata ad accertare se il disabile, a causa delle minorazioni, possa continuare a prestare la propria attività all’interno dell’impresa.
Ma quali sono gli effetti legati alla visita medica?
Se viene accertata la incompatibilità sopravvenuta e questa non sia riferibile a colpe del datore di lavoro scaturenti dal mancato rispetto della normativa in materia di salute e sicurezza sul lavoro e qualora la stessa abbia natura temporanea, il lavoratore ha diritto alla sospensione non retribuita del rapporto per tutto il periodo in cui sussiste l’incompatibilità e sull’imprenditore grava l’onere di assegnazione del disabile a mansioni equivalenti (si ritiene che tale ipotesi continui a sussistere essendo contenuta in una legge speciale, pur se l’art. 2103 c.c. è cambiato) od inferiori con la conservazione del trattamento economico più favorevole, anche attuando una serie di possibili adattamenti alla organizzazione del lavoro. Se ciò non è possibile (cosa che si verifica anche nell’ipotesi in cui la commissione abbia accertato l’assoluta incompatibilità con qualsiasi prestazione lavorativa), il lavoratore può essere licenziato per giustificato motivo oggettivoconsistente nella impossibilità sopravvenuta della prestazione.
Alcune riflessioni, a questo punto, si intendono necessarie.
Il licenziamento del disabile è, sicuramente, legittimo in presenza della perdita totale della capacità lavorativa o di una situazione, cagionata dall’infermità, di pericolo per la propria e l’altrui incolumità o per la sicurezza degli impianti. Nelle altre ipotesi il datore ha l’obbligo di verificare se, anche in virtù di cambiamenti nell’organizzazione, vi sia una postazione, anche inferiore, ove adibire il soggetto interessato. Ed è proprio su questo aspetto che il giudice, avvalendosi anche del consulente tecnico d’ufficio (CTU) può individuare postazioni lavorative compatibili con l’infermità sopravvenuta.
In questo caso la tutela per il portatore di handicap è piena. Come confermato dallo stesso art. 2, comma 4, del D.L.vo n. 23/2015 (ma il discorso è uguale anche per gli assunti prima del 7 marzo 2015), nel caso in cui il giudice accerti il difetto di giustificazione per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore, ordina la reintegra nel posto di lavoro, condannando il datore al pagamento delle retribuzioni (in ogni caso, non meno di cinque mensilità), della contribuzione e dei premi assicurativi, fino alla data della riammissione in servizio, detratto l’eventuale “aliunde perceptum”, con possibilità per il dipendente di rinunciare al posto di lavoro previo il pagamento di quindici mensilità calcolate sull’ultima retribuzione utile per il computo del TFR.
Un discorso, leggermente diverso, va fatto per il licenziamento del disabile avvenuto al termine di una procedura collettiva di riduzione di personale. Ferma restando la impugnabilità dei recessi per violazione dei criteri di scelta individuati, di comune accordo, con le OOSS o, in applicazione di quelli legali previsti dall’art. 5 della legge n. 223/1991 (con tutele, sostanzialmente diverse per i lavoratori assunti con le “tutele crescenti”), il recesso può essere annullabile (ma la cosa vale anche se lo stesso è individuale e motivato per giustificato motivo oggettivo) qualora per effetto di quella risoluzione si venga a scendere sotto l’aliquota d’obbligo di riserva.
Da ultimo, la Cassazione (Cass., 24 novembre 2008, n. 27877) ha ritenuto legittimo il licenziamento di un lavoratore che aveva attestato la propria disabilità con documentazione falsa o viziata da invalidità non sanabile: tale recesso può avvenire in qualsiasi momento del rapporto di lavoro.