La morte di Totò Riina apre la corsa alla successione

pC’era un capomafia anziano e ambizioso, che circa dieci anni fa aveva deciso di diventare lui, il capo dei capi: voleva ricostituire la “commissione”, per fare anche “cose gravi”, come riprendere la guerra allo Stato. Benedetto Capizzi, boss di Villagrazia, fu però stoppato, perché, rivelarono le intercettazioni, per riformare l’organismo decisionale di Cosa nostra ci voleva il permesso del “Corto”. Cioè proprio del capo da avvicendare: Totò Riina. E la moglie, Ninetta Bagarella, non aveva dato al figlio Salvuccio il permesso di fare da tramite col padre detenuto al 41 bis.

Vedeva lungo, Ninetta. Il “Corto”, cioè il marito, comandava pure dalle supercarceri: e il suo – ricorda il pm Sergio Lari – «era il modo di regnare senza governare, tipico di un sovrano, una figura emblematica, carismatica, negli ultimi anni senza potere operativo ed effettivo ma comunque considerato sempre il capo assoluto». «Se non muoiono tutti e due – diceva in un’intercettazione il rampollo di una famiglia di mafia, Santi Pullarà, negli ultimi giorni di Bernardo Provenzano – luce non se ne vede». Ora che è morto pure Totò Riina c’è la “luce”, l’enorme problema di avere un capo, «perché di un capo – come dice il procuratore di Palermo, Francesco Lo Voi – la mafia ha sempre bisogno».

 

Già adesso l’associazione mafiosa è cambiata radicalmente, priva di una leadership unica e operativa e alle prese con un’alternanza ai vertici, dettata dalle scarcerazioni di boss e gregari. Il ricambio continuo fraziona le responsabilità – anche penali – e crea un notevole ricambio nell’organizzazione, impedendole però di consolidare figure di riferimento. Riina era questo: evitava ai singoli di sovraesporsi, arginava odi e gelosie. Ora si parla di Matteo Messina Denaro come suo successore naturale: ma la figura dell’ultimo vero superlatitante di rigida osservanza corleonese, mitizzata soprattutto dai media, appare inconsistente dal punto di vista della presenza fisica e del carisma. Le intercettazioni registrano grande deferenza nella sua provincia, il Trapanese, ma rispetto misto a indifferenza a Palermo, dove verso il boss di Castelvetrano c’è lo stesso scetticismo manifestato da Riina, nei colloqui intercettati in carcere col suo compagno di socialità Alberto Lorusso, nel 2013. Messina Denaro, d’altronde, deve la propria perdurante libertà alla capacità di non sporcarsi le mani, di non avere contatti: e Riina si spazientiva, chiedendosi cosa facesse per il bene comune della mafia.

Sangue, tradimenti e misteri irrisolti: così Riina è diventato il boss dei boss

Riina era il dittatore corleonese ma non decideva da solo: passava attraverso confronti e l’incontri, ne aveva la necessità per comunicare con i suoi. Lari, oggi procuratore generale e fino a un paio d’anni fa capo della Dda di Caltanissetta, è stato uno dei pochi pm italiani a interrogarlo in carcere: «La descrizione ne davano i collaboratori di giustizia – racconta – era fedele; ti guardava fisso negli occhi e osservandolo pensai che era assolutamente vero ciò che ci aveva detto il pentito Nino Giuffrè, a proposito della riunione del dicembre 1991, in cui aveva comunicato che si sarebbe passati all’attacco contro lo Stato. Ho capito cioè perché nessuno, in quel summit, avesse osato obiettare nulla: per il modo in cui lui guardava gli altri».

Riunioni e incontri sono ad altissimo rischio, fra intercettazioni, arresti, tradimenti da parte di possibili pentiti. Nel febbraio 2011, nel giorno di chiusura di un ristorante palermitano, Villa Pensabene, i carabinieri riuscirono a riprendere da lontano i partecipanti a un summit, ma non fecero in tempo a piazzare le microspie. Nel settembre dello stesso anno uno dei partecipanti, Giuseppe Calascibetta, fu assassinato. Uno dei pochissimi delitti di mafia degli ultimi tempi: pochi ma perfetti, “blindati”, perché i colpevoli non vengono mai trovati.

 

Nessuno ha il carisma di Riina, se non nel proprio ambito territoriale; Giovanni Grizzaffi, nipote diretto del boss morto ieri, scarcerato di recente, può comandare a Corleone, ma non a Palermo. Gregorio Di Giovanni, Tommaso Lo Presti, Alessandro D’Ambrogio, Giulio Caporrimo, Cesare Carmelo Lupo, Antonino Sacco, Filippo Adelfio, Sandro Capizzi, nomi sconosciuti al di fuori del capoluogo dell’Isola, sono leader locali, dei mandamenti cittadini. Eppure il capo è indispensabile, business is business: «Pur essendo destrutturata – chiosa Lari – la mafia continua a fare affari, riprendendo i traffici di droga e non rinunciando al controllo del territorio, esercitato attraverso l’imposizione del pizzo, che serve anche per affermare l’autorità mafiosa. La frase di Falcone, “è un fenomeno umano che avrà una fine” è vera, ma la fine non si vede ancora».

Tratto da: http://www.lastampa.it/2017/11/18/italia/cronache/la-morte-di-tot-riina-apre-la-corsa-alla-successione-NPEhECMrywE99ifrLZV50J/pagina.html