Migranti e volontariato, come cambia il “modello Milano” dell’accoglienza

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In un incontro organizzato da Ciessevi-Università del volontariato si è fatto il punto sulle varie forme di intervento. Se l’integrazione resta un obiettivo difficile, le associazioni non smettono di aggiornare le loro attività e proposte. Ma sullo sfondo ci sono le incognite della legge Minniti-Orlando.
No alla legge Minniti-Orlando. Perché chiude le porte a chi si è visto negare una prima volta la richiesta di protezione o di asilo, lasciando così campo libero all’illegalità e alla clandestinità. È una delle richieste sollevate più volte durante l’incontro “Migrazioni umanitarie e sistemi di accoglienza: oltre l’emergenza”, organizzato qualche giorno fa da Ciessevi-Università del Volontariato a conclusione del corso sull’emergenza-accoglienza dei profughi. Un’occasione che ha dato modo di radunare attorno a un tavolo le principali organizzazioni di volontariato e di fare il punto sull’accoglienza dei migranti a Milano, e non solo: un sistema complesso che si attiva dall’arrivo alle frontiere, passa per lo smistamento nelle province in base alla popolazione residente, la sistemazione nei Cas (Centri di accoglienza straordinaria), fino alla collocazione nelle strutture dello Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) per coloro che hanno ottenuto dalle Commissioni territoriali una forma di protezione internazionale e quindi la possibilità di rimanere in Italia.
Modelli milanesi. “Sono ormai trent’anni che a Milano diverse associazioni non profit si occupano del problema – ha sottolineato Ivan Nissoli, presidente di Ciessevi. – Seppur in modi diversi, sono diventate dei veri e propri modelli di operatività. Il volontariato ha la capacità di leggere i bisogni e trovare le risposte a partire dalle risorse presenti sul territorio. Per Ciessevi questo incontro è l’inizio di un cammino che vorrebbe aprire una riflessione sul tema più ampio della cultura dell’accoglienza”. Da cinque anni, infatti, l’Università del volontariato di Ciessevi organizza corsi per formare i volontari delle associazioni che operano in favore dei migranti, grazie anche alla collaborazione dell’Università Statale di Milano. In particolare, lo scopo è di fornire strumenti per realizzare corsi di italiano e per capire cosa si intende per migrazione, asilo e accoglienza con tutte le declinazioni normative.
L’integrazione complicata. “Cerchiamo di offrire un servizio che restituisca dignità ai profughi, anche se è un obiettivo difficile”, ha affermato Monica Simeone di Croce Rossa Italiana, Comitato di Milano. “In città gestiamo due centri di accoglienza: erano nati per essere strutture di transito, ma di fatto per tanti si stanno rivelando come una situazione prolungata nel tempo. Sono luoghi dove il senso della persona si perde, perché in uno spazio limitato sono costrette a convivere parecchi individui provenienti da culture completamente diverse”. Di conseguenza, “modulare interventi di assistenza e di integrazione è complicato. Pensiamo ai tempi per l’ottenimento del permesso di soggiorno, alla richiesta di avere un codice fiscale, o la carta d’identità. O ad ostacoli che rallentano i nostri sforzi, come l’iscrizione a un corso di formazione o l’accesso a una scuola. Infine, quando un immigrato è arrivato a ottenere la protezione sussidiaria o umanitaria, o l’asilo, noi gestori dei centri siamo obbligati a farli uscire. Perché, se arriva il collocamento nello Sprar, le persone vanno allontanate”.
Operatori “umani”. Sulle stesse problematiche ha parlato Sabrina Liberato di Progetto Arca, che gestisce numerosi centri tra Milano, Lecco e Varese, anche insieme ad altri enti come Save the children: “Il punto fondamentale è umanizzare questo lavoro. Abbiamo circa 1.400 utenti, e a ciascuno è importante dare la giusta dignità e umanità. Parliamo di persone che hanno vissuto un trauma con tempi di sedimentazione ed elaborazione molto lunghi. Penso soprattutto alle tante donne in attesa di un bambino. Tutto quello che noi possiamo offrire loro è di stimolarli nel tornare a vedersi come persone. Perché solo con un passaggio “umano” si crea la futura integrazione”.
La carta dell’accoglienza. “Abbiamo redatto una Carta della buona accoglienza che prova a mettere in fila le buone prassi per operare, – ha spiegato Paolo Pagani della cooperativa Farsi Prossimo, del circuito di Caritas Ambrosiana. – La prima attenzione è verificare le condizioni di salute e l’eventuale presa in carico dei problemi sanitari. La seconda riguarda il fascicolo del richiedente protezione: l’iter del primo permesso di soggiorno, la domanda di asilo eccetera. Al terzo posto c’è l’insegnamento della lingua italiana e non solo, perché a Milano il 15% dei rifugiati sono analfabeti che parlano solo il loro dialetto locale. Poi c’è l’avviamento professionale: mentre alcuni hanno già una professione, altri devono essere avviati con tirocini, corsi e altro. L’ultimo step lo chiamiamo il “dopo di noi” ed è la preparazione all’autonomia una volta usciti da sistema di protezione che avviene con la collaborazione di organizzazioni di terzo livello. Tutte queste attenzioni devono essere condite da un elemento fondamentale che è la relazione, in cui l’azione del volontariato gioca un ruolo chiave”.
I futuri “clandestini”. Ma è “oltre l’emergenza” e sulla legge Minniti-Orlando che sono emerse le maggiori criticità. “Assistiamo a un numero elevatissimo di dinieghi ad entrare nel sistema di protezione, – ha affermato Susi Ioveno di SOS Emergenza rifugiati. – In questo momento siamo al 60-70% di risposte negative, nonostante siano in corso gli ultimi appelli previsti. Il problema scoppierà quando dovremo gestire tutti questi migranti che, rifiutati dal sistema, diventeranno clandestini. Se noi non potremo più aiutarli, che fine faranno? Dove andranno, visto che i rimpatri sono pochissimi sia per le scarse risorse economiche sia perché non ci sono accordi con i Paesi di origine? Il rischio è che tutto il lavoro che abbiamo fatto negli ultimi anni sia vanificato. Ci aspettavamo un passo in avanti da parte delle istituzioni, invece manca la visione del domani”.
Volontari, ma formati. Secondo la sociologa Paola Bonizzoni, docente della Statale di Milano e dei corsi sull’immigrazione dell’Università del Volontariato, “c’è bisogno di volontari, purché formati con linee guida precise. Sono molte le attività in cui spendersi: corsi di alfabetizzazione, sostegno ai minori, animazione, mediazione linguistica”. E sono diverse le esperienze anche di piccole associazioni che hanno trovato il loro spazio di azione in questo contesto. Un esempio è l’associazione NoWalls, nata due anni fa. “Operiamo nel Centro di via Corelli, in cui soggiornano 500 ragazzi – ha raccontato la presidente Angela Marchisio, – in stretta collaborazione con i gestori e senza sovrapporci. Principalmente ci occupiamo di alfabetizzazione, e allo stesso tempo ascoltiamo e parliamo con loro. L’attività principale dei volontari è rendere questi luoghi migliori”.
La condivisione del tetto. Diversa invece è la proposta di Refugees Welcome Italia. “La nostra attività, – ha spiegato Matteo Bassoli, – è fondata sul dialogo, e sulla convinzione che accogliere l’altro, lo straniero, può soltanto arricchirci. Questa visione la coniughiamo tramite la condivisione del ‘tetto’. Siamo partiti da un interrogativo: perché non accogliere i rifugiati a casa nostra? Con l’attivazione di legami di comunità possono nascere e svilupparsi percorsi reali di inclusione e di convivenza. Per questo non chiediamo l’uso di un appartamento sfitto, ma l’accoglienza in casa propria. Si tratta della terza fase del percorso di accoglienza, di migranti che escono dal sistema di protezione. Un’accoglienza non vincolata da tempi tecnici o normativi, ma che tiene conto dell’intervallo necessario per portare queste persone all’autonomia lavorativa e abitativa, dentro uno spazio tutelato. I nostri ospitanti sono molto eterogenei: oltre alle famiglie tradizionali ci sono single, gruppi di studenti, giovani coppie. Dietro c’è un lavoro complesso di valutazione sia del migrante che della famiglia. Noi partiamo dall’idea che un periodo in famiglia acceleri una reale integrazione”. (Elisabetta Bianchetti)

TRATTO DA: http://www.redattoresociale.it/Notiziario/Articolo/533799/Migranti-e-volontariato-come-cambia-il-modello-Milano-dell-accoglienza